(tratto dall’intervista a Maurizio Ambrosini, professore di sociologia delle migrazioni presso l’Università degli Studi di Milano)
Cosa significa oggi parlare di co-sviluppo?
Che i migranti possano avere un ruolo attivo e positivo nello sviluppo del proprio paese e del paese di arrivo, non è un concetto che può vantare una lunga storia. Per lungo tempo l’immigrazione è stata vista come una “malattia” e il ritorno in patria come la giusta “guarigione”, in questo senso il co-sviluppo era considerato la “terapia”, il facilitatore del processo di ritorno. Ancora oggi, soprattutto in tempi di crisi, le politiche di molti paesi riceventi incentivano il rientro come risposta alla povertà degli immigrati.
Questo approccio è però fallimentare, in quanto si scontra in primis con la psicologia dei migranti: partiti con speranza e orgoglio, non hanno alcuna intenzione di tornare da falliti e con vergogna. Il rientro viene visto bene dall’immigrato quando lui ha successo e può tornare con speranze di miglioramento ulteriore nel suo paese di origine, tipicamente quando ha messo da parte dei risparmi ed esiste nel paese di provenienza un contesto economico positivo che permette di valorizzare degli investimenti.
E’ stato con la scoperta del peso delle rimesse nello scenario economico mondiale che c’è stato il cambio di rotta, e i migranti sono diventati una risorsa per lo sviluppo. In paesi come El Salvador, l’Eritrea o lo Sri Lanka, ad esempio, le rimesse sono la prima voce attiva nella bilancia dei pagamenti, e, in generale, le rimesse tendono ad essere resilienti anche rispetto a situazioni di crisi economica: se nel 2009 sono diminuite, già nel 2010 hanno ripreso a crescere. La capacità di stabilizzazione delle rimesse rispetto alle condizioni economiche si estende anche agli aspetti sociali e di vita nei paesi riceventi.
Tuttavia questo non significa che le rimesse siano la soluzione ai problemi dello sviluppo, e che non sia più necessario un impegno in progetti, investimenti e azioni positive da parte di soggetti governativi e non del nord del mondo. E’ vero che le rimesse contano molto di più degli investimenti diretti dall’estero ed eccedono di gran lunga i fondi della cooperazione internazionale, però da sole non bastano. Possono infatti generare degli squilibri all’interno delle comunità e dei paesi riceventi, effetti distorti come l’aumento dei prezzi dei beni di consumo e processi imitativi, che portano sempre più persone ad emigrare.
Quali sono quindi le condizioni perché i migranti possano essere davvero motore di sviluppo?
Il co-sviluppo in molti contesti è già una realtà: ci sono esperienze in cui si fondano filiali commerciali, in cui il migrante diventa tramite per esportazione di moda o altri prodotti dell’industria del cibo oppure attiva delle realtà produttive che possano poi immettere dei prodotti nei mercati del nord globale; non si tratta di inventare cose nuove, ma di perfezionare ed accompagnare dei processi che già spontaneamente si sviluppano.
Il co-sviluppo può essere una prospettiva vincente e significativa, però, solo se esiste un contesto dinamico nel luogo di destinazione, in cui possano essere messi a servizio dello sviluppo le risorse e i saperi che i migranti hanno accumulato grazie alle migrazioni. In questo senso è cruciale il ruolo del paese di immigrazione, nell’incentivare e favorire processi di rete e crescita economica nel sud del mondo. E’ necessario infatti intervenire con delle azioni di riequilibrio delle diseguaglianze, accompagnamento, potenziamento dei servizi pubblici, capaci di generare redistribuzione e miglioramento delle condizioni di vita per il maggior numero di persone.
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