Duecentomila morti, quasi 4 milioni di rifugiati – in gran parte in Turchia, Libano e Giordania – e 7,6 milioni di sfollati è il tragico bilancio di quattro anni di guerra in Siria, trasformata in campo di battaglia tra l’esercito del presidente Bashar al-Assad, i ribelli, i miliziani di Jabat al-Nusra e quelli di Daesh, l’autoproclamato Stato Islamico – IS, che avanza uccidendo senza pietà i nemici. ll campo profughi di Yarmouk, dove i palestinesi sono intrappolati senza scorte di cibo, acqua e medicinali e rischiano di essere eliminati, è la nuova frontiera dell’IS, ormai alla periferia di Damasco. Ostaggio del conflitto è la società civile, che cerca di resistere e vorrebbe avere voce all’esterno, come sottolinea Eva Ziedan, giovane attivista siriana che Gariwo ha incontrato durante un suo viaggio in Italia.
Laureata in Archeologia all’Università di Damasco nel 2007, Eva Ziedan è stata impegnata dal 2006 al 2010 in missioni in importanti siti archeologici della Siria (a Balas, Qatna/Mishrifeh e nella Palmirena, regione desertica a ovest di Palmira). Tra il 2011 e il 2013 ha vissuto in Italia, dove ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Udine e svolto l’attività di mediatrice linguistico-culturale per le ACLI. Da luglio 2013 lavora a Beirut con un’organizzazione internazionale, collabora con il sito di informazione “SiriaLibano” ed è impegnata in un progetto legato all’emergenza umanitaria siriana.
Nel 2011 quando in Siria è iniziata la rivolta, lei era in Italia per motivi di studio, ed è ritornata in patria solo due anni dopo. Quando ha pensato di impegnarsi per la rivoluzione contro il regime di Assad e come porta avanti questo impegno?
L’ho deciso quando sono cominciate le prime manifestazioni, ancora prima del marzo 2011, e ho sentito che a Damasco stavano tentando di fare quanto era stato compiuto in Tunisia e in Egitto: era un sogno che finalmente si realizzava. Ho provato a sensibilizzare la gente sulla questione siriana. In Italia allora non tutti sapevano dove e cosa era la Siria; per molti era solo la nazione governata dal “medico laico, che aveva studiato in Inghilterra e sposato una donna bella ed elegante. Per altri significava sabbia e dromedari. Io raccontavo come si viveva in Siria e quale era la sua storia attraverso conferenze e incontri nelle scuole del Friuli-Venezia Giulia o come mediatrice culturale per le ACLI.
Voglio sottolineare che non sono impegnata a denunciare esclusivamente le violazioni del regime, ma tutte le violenze e negazioni dei diritti umani da qualsiasi parte vengano, siano esse compiute da estremisti, da ribelli o dal regime. E questo accadeva ancora prima del mio ritorno in patria, dove la situazione cambiava velocemente. Col tempo avvertivo che da lontano non si poteva capire molto, che la verità non era sempre chiara e i media non danno spesso voce a chi sta là e raccontano soprattutto fatti eclatanti o ad effetto. Quando ho capito che solo chi vive la realtà può davvero raccontarla, sono tornata, perché per la prima volta ho sentito che io appartengo solo a quel Paese, la Siria, e ogni momento di pace vissuto al di fuori era una tortura psicologica, perché là dove sono nata la pace non voleva arrivare.
In un Paese sconvolto dalla violenza e diviso tra zone controllate dal governo e quelle occupate dai fondamentalisti del Califfato Nero che cosa possono fare gli attivisti per ripristinare almeno parzialmente la normalità nella vita quotidiana?
É Importante sottolineare che in ogni città c’è un diverso contesto economico, demografico, strategico e sociale. Tartus, Sweida e Damasco sono sotto il controllo del regime, ma hanno situazioni differenti. Stessa cosa dicasi per le aree in mano all’opposizione armata, come Aleppo e Dara’a, e quelle dominate dall’ISIS: Raqqa e Deir ez-Zor. L’unico fattore unificante è la società civile, la vittima che paga questo conflitto col sangue. A Deir ez-Zor i cittadini sono stati messi davanti due scelte: giurare fedeltà allo Stato islamico o morire di fame sotto assedio o sotto i bombardamenti del regime. Ad Aleppo, nell’area controllata dai ribelli, società civile e attivisti devono sostituire lo Stato nella difesa, nell’istruzione, nei tribunali e così via, e anche resistere a chi vuole usare le armi per controllare i civili e sostenere la maggior parte delle bande armate, solo perché sono l’unica difesa contro gli ordigni lanciati dal regime. A Damasco gli attivisti devono lavorare di nascosto altrimenti vengono arrestati, e quando si entra in prigione non si sa quando e come se ne esce. Molti giovani evadono il servizio militare e quelli che non hanno i soldi per scappare devono combattere anche se non vogliono, perché se non uccidono vengono eliminati.
In tutto questo buio c’è ancora chi crede nella Siria, nonostante tutto l’odio scatenato, chi cerca di allontanare i bambini dalla guerra, chi getta la propria idea politica dietro le spalle per sostenere il dialogo tra le diverse comunità, chi svolge attività legate alla bellezza e alla civiltà, perché non si vive solo di pane. Molti combattono per convincere le Ong internazionali che non chiediamo solo aiuti umanitari, ma vogliamo lavorare: solo tramite lo sviluppo e il lavoro la gente può andare avanti, altrimenti la morte è questione di tempo. Non c’è solo gente violenta ma c’è anche gente povera che cerca lavoro e non lo trova e per questo va a combattere per guadagnare.
Ci sono iniziative per rendere meno dura la condizione degli sfollati nei campi profughi?
Certo, per esempio quelle realizzate in Libano dalle organizzazioni come Basmeh & Zaytooneh o dal gruppo dei volontari “oyun surieh” e da molti altri. In Siria ci sono gruppi di volontari originari della città che ospita gli sfollati, che vanno in loro aiuto oppure tentano di coinvolgere gli sfollati stessi all’interno della comunità, lasciando alle spalle i pregiudizi; questo avviene da tutte e due le parti, la gente buona c’è sempre. Il problema è che non c’è una legge per proteggere i profughi siriani in molti paesi. Da quattro anni vediamo persone che muoiono di freddo, ragazzine vendute, donne violentate, rifugiati che pagano migliaia di dollari per morire in mare, presi in giro dai mercanti di morte.
Dopo quattro anni di guerra c’è ancora spazio per il movimento pacifico per i diritti civili e la democrazia?
La causa siriana non è più una questione interna. É diventata una causa internazionale e regionale. La soluzione politica deve venire dagli altri. Ma sembra che nessuno la voglia. La speranza, anche se poca, viene dalla base dalla società civile, che non ha armi, né interessi politici e vuole la pace. Dobbiamo crederci e provare ad aiutarli.
La nostra associazione, “Gariwo – la Foresta dei Giusti”, ha onorato gli attivisti siriani Ghayath Mattar e Razan Zaitouneh nel Giardino dei Giusti di Milano. Per Razan, rapita nel 2013 da un gruppo estremista, Gariwo ha chiesto l’immediata liberazione associandosi all’appello della sorella Rana. Le donne hanno avuto un ruolo importante nella rivolta e l’esempio di Razan non è quindi un caso isolato?
La vostra è stata un’iniziativa molto importante, sono state scelte due persone che mostrano cosa succede nel Paese. Ghayath Mattar è uno dei tanti siriani che impersonavano la protesta pacifica e la prova che questa è stata soffocata, perché è stato ucciso dal regime mentre era in carcere.
Razan – speriamo stia bene e venga rilasciata – ha creduto sempre e lavorato per la Siria civile e democratica, che sogniamo tutti. Razan non è un simbolo isolato, anzi è rappresentativa delle numerose attiviste che assieme agli attivisti sono state arrestate dal regime o da gruppi combattenti e spesso estremisti; le donne sono molto coinvolte. In parecchi villaggi sono rimaste solo le donne, perché gli uomini stanno combattendo o sono scappati dalla coscrizione militare. Ora sono loro che devono lavorare, tenere i bambini e andare a chiedere la sorte dei loro cari, siano madri, sorelle, o mogli o figlie. Loro possono perdonare, solo la madre del detenuto riesce a capire come si sente la madre del martire.
Non posso parlare a nome del popolo siriano, che ora è diviso e violentato. Penso che molti vogliano la pace, qualsiasi iniziativa per ottenerla è importante, anche se serve solo per bloccare la violenza per qualche ora.
Pensa di rientrare in Siria e con quali progetti?
Sono già impegnata in progetti che provano a trovare uno spazio comune tra i siriani, usando i bisogni come modo di dialogo più che le parole. Di più, per il bene del progetto, è meglio non dire.