Un continente monolitico, immobile tra guerre e un’eterna povertà.
Da un’intervista con il Prof. Giorgio Musso – Ricercatore di Storia dell’Africa, Università di Genova – curatore del ciclo di incontri “Africa Oltre. Conoscere l’Africa al di là degli stereotipi“
Nell’immaginario collettivo, gli aspetti che più rimangono fossilizzati e impediscono una visione plurale e dinamica dell’Africa sono frutto di una profonda ignoranza, e anche se non scriviamo più come i romani “hic sunt leones” nelle cartine geografiche, non possiamo dire di discostarcene molto. L’immagine che abbiamo dell’Africa è quella di un continente violento: le guerre africane sono incomprensibili o irrisolvibili, o spesso semplificate come guerre legate al petrolio o a questioni etniche. A questa visione si contrappone un’immagine opposta, quella romantica ed esotica: l’Africa viene vista come una terra senza tempo dove si può ancora fare esperienza di una dimensione “naturale”. La povertà è poi uno degli stereotipi più radicati: l’Africa è effettivamente un continente dove milioni di persone vivono in povertà, ma ci sono movimenti di crescita sotto molteplici aspetti che non percepiamo.
La Fondazione per la cultura di Palazzo Ducale di Genova organizza da anni iniziative sull’Africa ed ora sta realizzando un ciclo di incontri con una finalità ben precisa: smontare gli stereotipi che da 40 anni persistono rispetto al continente africano.
Alla base c’è una constatazione: l’Africa sta cambiando. Negli ultimi 10 anni il continente africano ha iniziato una silenziosa ascesa economica e politica, e se ne sono accorte le potenze emergenti come Cina, India e Brasile. L’Europa, invece, si è ritirata con un atteggiamento decisamente non lungimirante. Se da un lato le potenze emergenti si stanno rincorrendo in una corsa alle materie prime – che non può essere interpretato come un fenomeno positivo – d’altro canto c’è una presa di coscienza delle potenzialità del continente da parte di società africane: parliamo della classe media, della classe imprenditoriale che ha registrato in diversi casi ottimi risultati; parliamo di giovani che decidono di rimanere nel loro Paese – anche se la fuga dei cervelli rimane molto alta.
Rispetto agli anni ’90, anni in cui l’afropessimismo era al suo apice per via delle guerre diffuse e di regimi dittatoriali che sembravano impossibili da abbattere, oggi l’Africa è un continente con ampi territori pacificati. Rimangono sacche di grave violenza, ma nel continente si stanno diffondendo numerosi regimi democratici – anche se imperfetti.
Gli aspetti più importanti da portare a conoscenza dell’opinione pubblica sono dunque due: innanzitutto la percezione dell’Africa come una realtà plurale, dove i cambiamenti generano profonde differenze. Mentre alcuni paesi crescono rapidamente economicamente e politicamente, altri ristagnano. L’altro concetto chiave è che dobbiamo superare l’immagine di un’Africa immobile: ci sono dinamiche di cambiamento, che devono essere lette con criticità per evitare di rimanere imprigionati nell’opposto dell’afropessimismo, ovvero l’afroottimismo a tutti i costi.
La cooperazione è il principale veicolo di informazione che abbiamo sull’Africa e su altre aree extra-europee. D’altronde siamo in molti ormai a ritenere che esista un forte problema di comunicazione, da parte delle organizzazioni che si occupano di cooperazione internazionale: quando l’obiettivo finale è il fundraising, la visione dell’Africa che si propone è pensata per giustificare la donazione. In questo modo, si contribuisce a rinforzare un’immagine stereotipata del continente.
La cooperazione spende poco tempo per raccontarsi davvero e le ONG spiegano poco quello che fanno: una domanda che la gente si fa è “in un momento di crisi, la cooperazione non è un lusso che non possiamo permetterci?”. C’è una grande responsabilità in tutto questo da parte della cooperazione, che è l’autoreferenzialità. Anziché puntare su sentimenti come la pietà, la comunicazione delle organizzazioni di cooperazione dovrebbe raccontare le storie di cui è partecipe, come ad esempio il fatto che ha saputo dare dignità professionale a tante persone locali che lavorano nei progetti e che altrimenti sarebbero dovute andare all’estero. Queste storie non sono soltanto belle, ma sono utili e ci interessano perché mantengono vivo il legame con l’Africa.
Alla base di nuove vie da percorrere per superare i luoghi comuni e guardare l’Africa nella sua complessità c’è la necessità di avviare un cambiamento culturale, liberandoci del pregiudizio di compiere una missione civilizzatrice e del quasi istintivo complesso di superiorità. Una delle cose che si sente dire molto dagli africani che lavorano con cinesi o latinoamericani, è la facilità del rapporto paritario: “loro si rapportano con noi da pari a pari”. Il peso della storia rimane nel sentimento comune, nonostante le condizioni tra Europa e Africa si siano ribaltate. Per struttura demografica, ad esempio, l’Africa è l’unico continente al mondo che vedrà una continua crescita nella popolazione lavorativa e nel prossimo futuro in Africa ci saranno ancora risorse.
Per capire meglio la rivoluzione di pensiero di cui c’è bisogno, si possono citare due esempi in cui i ruoli tra Europa e Africa si sono completamente ribaltati: il caso più interessante è quello del milionario sudanese Mo Ibrahim, che ha finanziato delle borse di studio alla SOAS, l’università inglese creata per formare i funzionari del periodo coloniale. Il secondo riguarda l’inversione del movimento dei preti tra i due continenti: oggi sono i preti africani che arrivano in Europa, per ri-evangelizzare i pronipoti di quei missionari che un tempo erano impegnati in terra africana.
“Africa Oltre. Conoscere l’Africa al di là degli stereotipi“ a cura di Giorgio Musso, è organizzato da Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, l’Università di Genova, l’Università di Parma e l’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale). Sul sito di Genova Palazzo Ducale, sezione Multimedia, è possibile scaricare il file audio mp3 del primo incontro – 7 marzo 2013