Mimose nei capelli, manifestazioni per strada, inni su diritti delle donne, striscioni, servizi televisivi e articoli di giornali sul ruolo sempre più dirompente della donna: ecco come in Italia, e in molti altri paesi europei, centinaia di donne di tutte le etá festeggiano, unite più che mai, l’8 marzo: Giornata mondiale della donna.
Ma nello stesso giorno, nelle stesse ore, cosa sarà mai successo dall’altro lato del mondo, in un paese chiamato Somalia? Un paese che – bisogna ricordarlo- dopo 20 anni di instabilità politica e guerra civile è ancora parzialmente in mano agli estremisti islamici ed è appena uscito, a stenti, da una delle più terribili carestie degli ultimi decenni.
Le notizie pubblicate da alcuni rilevanti media sono tanto incoraggianti quanto fuorvianti. Da una parte, e’ doveroso mettere in evidenza come l’intervento delle truppe Amisom e il loro successo nello scacciare i militanti di Al Shabaab da gran parte della nazione abbiano ridato speranza alla gente e abbiano permesso la rinascita di numerose città, tra cui la capitale Mogadishu.
Nel mese di agosto 2012, i membri del parlamento hanno giurato per la prima volta da oltre vent’anni e, il mese successivo, hanno eletto presidente Hassan Sheikh Mohamud, grazie al primo voto tenutosi sul suolo somalo dal 1967. Dopo decenni di conflitto, una maggiore stabilità politica ha significato anche una crescita degli investimenti e della fiducia di altri paesi, africani e non. A Mogadishu le donne hanno ricomiciato a guidare la macchina e lavorare (sebbene sempre doverosamente coperte), e, in un recente video pubblicato dalla sezione dedicata allo sviluppo globale del Guardian, si può sentire Lul Moalim Keyrat – una delle donne intervistate- dire che, nella capitale della Somalia, “gli uomini sono tutti senza lavoro e a portare a casa il cibo ci pensano le donne”.
Il riaccendersi delle speranze verso un futuro di pace e sviluppo non deve tuttavia oscurare il fatto che, tuttora, migliaia di donne somale vivano in una condizione a dir poco drammatica. La mutilazione genitale femminile, effettuata tra i 4 e i 7 anni di età della bambine, ha ancora una incidenza del 99%, con gravissime ripercussioni sulla salute fisica e psicologica delle donne.
Molte famiglie, composte soprattutto da nuclei di donne e bambini, continuano a fuggire dalle zone rimaste sotto il controllo degli Shabaab, in particolare dalle regioni meridionali del Basso Scebeli, per cercare rifugio altrove, dentro e fuori dal paese, in una corsa disperata verso una salvezza che però, il più delle volte, si traduce in una condizione di vita altrettanto pericolosa. Nella maggior parte dei casi, infatti, madri e figli abbandonano i propri villaggi con pochi beni essenziali e si trovano ad attraversare zone aride e desolate dove si aggirano gruppi armati, soldati e banditi, per poi giungere in campi profughi affollati e insalubri.
Ed è proprio qui, nei famigerati campi di “IDPs” (Internally Displaced People – ovvero sfollati interni al paese) che si consumano alcune delle peggiori atrocità nei confronti di donne già stremate dalle dure prove a cui la vita le ha sottoposte. Nei campi profughi, gli sfollati si trovano a vivere con mezzi di fortuna in tende o capanne di fango prive di serrature e in zone generalmente poco illuminate, senza alcun meccanismo di protezione. In questi nuovi agglomerati abitativi, inoltre, vengono a mancare tutte quelle forme di protezione tradizionale che, nei propri luoghi di origine, sono garantite dalla presenza della propria famiglia allargata e dal proprio clan di origine. Tutto ciò espone donne e ragazze a furti, intrusioni, molestie e attacchi violenti di varia entità che si consumano soprattutto nottetempo.
Tra gli abusi sulle donne vi è in primo luogo la cosiddetta SGBV – Sexual Gender Based Violence, ovvero la violenza di genere, che comprende abusi quali stupri (operati in genere da soldati armati), e diverse forme di violenze sessuali. Ma il SGBV include anche altri tipi di abusi familiari, non meno gravi, tra cui i matrimoni precoci e forzati tra uomini e ragazze a malapena adolescenti e, come già detto, le FGM (Female Genital Mutilation – Mutilazioni Genitali Femminili).
E se all’interno dei propri miseri rifugi le donne convivono con il terrore di attacchi da parte di uomini, la situazione non è più incoraggiante all’esterno in modo particolare quando le donne e le ragazze sono obbligate a spostarsi per raccogliere legna da ardere o per andare alla ricerca di un luogo isolato per altri bisogni (considerata la scarsità di latrine nei campi), aumentando così la loro esposizione a violenze.
Per dare un’idea più concreta del fenomeno, l’ultimo report pubblicato da UNFPA (United Nation Population Fund) – l’agenzia delle Nazioni Unite che promuove i diritti delle donne in tutto il mondo-, denuncia che nei campi profughi una donna su tre è potenzialmente vittima di SGBV. L’incidenza di abusi sulle popolazioni sfollate, e in particolar modo sulle donne, è stata anche documentata, proprio nel Febbraio 2013, dallo Human Rights Watch (Osservatorio per i Diritti Umani), che ha condotto, in collaborazione con il Consorzio di ONG per la Somalia, una ricerca sul campo su tale tematica. Dopo anni di ricerca, 70 interviste a IDPs in numerosi campi di Mogadishu condotte nel 2011 e 2012 e decine di interviste a diversi attori umanitari, Human Rights Watch ha confermato che gli IDPs di Mogadishu sono stati, e sono tuttora, vittime di gravissime violazioni dei propri Diritti Umani, tra cui appunto stupri, pestaggi, discriminazioni claniche, negazione della libertà di movimento, mancanza di beni basilari quali acqua pulita e cibo.
In base alle informazioni raccolte da Human Rights Watch, a commettere tali abusi sono molteplici attori tra cui milizie affiliate al governo e gruppi armati che dovrebbero essere incaricati di mantenere la sicurezza nei campi.
Una volta che tali abusi vengono commessi, che tipo di giustizia possono trovare le centinaia di donne abusate? A chi si possono rivolgere? Molte si rinchiudono nel proprio dolore e nel proprio silenzio, dal momento che il rischio di stigma e di rifiuto da parte delle proprie famiglie e’ altissimo. E non ha certo vita facile chi decide di parlare, se si considera che, nel mese di gennaio 2013, una donna che ha denunciato di essere stata violentata dalle forze di sicurezza è stata condannata ad un anno di prigione, così come il giornalista che ha raccolto la sua storia.
Considerata dunque la tragica condizione che affligge ancora troppe donne nel mondo, Ban Ki-moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato quest’anno, in occasione della Giornata mondiale della donna: “convertiamo la nostra rabbia in azione… e facciamo inoltre una promessa speciale alle donne in contesti di conflitto, dove la violenza sessuale diventa troppo spesso uno strumento di guerra volto ad umiliare il nemico distruggendone la dignità”.
La violenza contro la donna, in qualsiasi forma essa si esplichi – dall’aggressione alla mutilazione, dallo stupro al rapimento, dalla coercizione alla prostituzione – costituisce un problema molto grave che affligge e colpisce duramente la salute fisica e mentale di migliaia di donne che vivono nei campi sfollati di Mogadishu.
Al dramma della violenza di genere è rivolto l’impegno di Cosv che a partire dal mese di aprile, realizzerà un intervento in 5 campi profughi sorti nell’area denominata “Zona K” di Mogadishu al fine di promuovere iniziative di prevenzione, educazione e di contrasto della violenza di genere a favore di circa 11,000 donne e bambine, inclusi uomini e bambini sopravvissuti a violenze o potenzialmente vittime delle stesse. Con questo obiettivo, verranno forniti, tramite 5 cliniche mobili, servizi sanitari volti a garantire un primo intervento di emergenza e un supporto psico-sociale per le vittime di violenza, con un sistema di riferimento dei casi più gravi a strutture ospedaliere dotate di unità preposte al trattamento delle vittime di violenza di genere.
Inoltre, al fine di creare opportunità concrete di reinserimento sociale e sostentamento economico per le vittime di violenza di genere, il progetto intende fornire occasioni formative professionali alle donne più vulnerabili, così da offrire loro opportunità di impiego in attività generatrici di reddito. Allo stesso tempo, verrà organizzata un vasta campagna di sensibilizzazione su tematiche relative alla violenza e alla protezione dei gruppi più vulnerabili attraverso la costituzione di 5 comitati per la protezione delle donne con il supporto di sensibilizzatori locali e leader comunitari.